05.10.2018
Elena dell’Agnese, Vice Presidente della International Geographical Union e professore di geografia politica e geografia culturale all'Università di Milano-Bicocca, dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale
Nel lontano 1876, l’Abate Antonio Stoppani si proponeva di far conoscere ai cittadini del Regno da poco unificato le “bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica” di quello che egli stesso, riprendendo un verso del Petrarca, definiva “Il bel Paese”. Nella sua descrizione, Stoppani seguì lo stratagemma narrativo della “conversazione”, o meglio del racconto, sviluppato come se la descrizione avvenisse in una serata fra amici, intorno ad un caminetto. Per illustrare, da Belluno all’Etna, la complessità geomorfologica e la varietà ambientale della penisola italiana, gli ci vollero ben 32 “serate” (ovvero capitoli), per un totale di oltre 600 pagine. Quello che si accingeva a descrivere era infatti un mondo “vasto e infinitamente ricco di fenomeni”, in quanto “alle bellezze e alle ricchezze scientifiche delle Alpi, noi aggiungiamo quelle così diverse dell’Appennino; e quando avremo descritto i nostri ghiacciai, le nostre rupi e le gole delle Alpi e delle Prealpi, troveremo nuovi mondi da descrivere: le emanazioni gassose, le fontane ardenti, le salse, i vulcani di fango, i veri vulcani e vivi e spenti, il Vesuvio, l’Etna, poi ancora il mare o le sue isole, i climi diversi, le diverse zone di vegetazione, dalla subtropicale alla glaciale, e cosi via discorrendo, ché l’Italia è quasi (non balbetto nel dirlo) la sintesi del mondo fisico” (Stoppani, 3° ed. 1881, p. XII).
In uno sforzo meno poetico, ma utilizzando metodi di ricerca assai più aggiornati (come il telerilevamento), l’ISPRA ha invece individuato, all’interno della penisola, 37 diversi “tipi di paesaggio”, scomponibili in ben 2.160 “unità fisiografiche di paesaggio”. Si è così giunti alla produzione di una “Carta delle Unità Fisiografiche dei Paesaggi Italiani” (Amadei et al., 2003), dove ognuno di questi tipi di paesaggio è stato considerato come “identificabile e riconoscibile sulla base della sua fisionomia caratteristica, che è il risultato ‘visibile’, ‘tangibile’, la sintesi ‘percettibile’ dell’interazione di tutte le componenti (fisiche, biotiche, antropiche) che lo determinano”. Oltre ad avere strumenti di ricerca nuovi, la ricognizione dell’ISPRA cerca dunque di mettere insieme alle caratteristiche fisiche del “bel Paese” anche le capacità trasformative degli esseri umani. Ossia, passa dal “Paese” al “paesaggio”.
Né la vastità del “mondo” fisico raccontata da Stoppani, né la carta delle unità fisiografiche dell’Ispra – che pure è accompagnata da un rapporto dove, tramite una serie complessa di indicatori, ci si propone di raggiungere una classificazione dei paesaggi italiani sulla base dei loro valori naturali e culturali (Capogrossi, 2017) – sono però forse sufficienti a raccontare la straordinaria varietà paesaggistica della penisola italiana.
Questa straordinaria varietà è garantita, oltre che dalla molteplicità delle aree naturali sottoposte a tutela e dalla abbondanza di beni culturali classificati dal complesso lavoro di valutazione dell’ISPRA (Capogrossi, 2017), anche dalla presenza di “un grande patrimonio di paesaggi rurali costruiti nel corso dei millenni” (Agnoletti, 2010), paesaggi fra loro diversi, pur se in contesti ambientali simili, che dimostrano come di volta in volta gli esseri umani abbiano imparato ad interagire con il contesto, trasformandolo e modificandolo con il loro agire territoriale. Anche in questo caso, i tentativi di catalogazione sono complessi, ma riescono ad offrire un’idea di tale diversità. Grazie ad una ricerca promossa dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e svolta in collaborazione con 14 università italiane e vari enti di ricerca internazionali, ad esempio, è stato possibile evidenziare la persistenza di ben 123 diversi “paesaggi rurali storici” (Agnoletti, 2010), alcuni dei quali risalgono al Rinascimento, e al Medio Evo, altri addirittura all’epoca romana (come nel caso della centuriazione padana e della alberata aversana fra Volturno e Napoli). Frutto della configurazione morfologica articolata della penisola italiana e della sua varietà climatica, i “paesaggi rurali storici” rispecchiano anche la combinazione di una varietà di influenze esterne con tecniche e tradizioni locali. Talora ancora rappresentativi di una notevole vitalità economica, in altri casi sono invece confinati ad una marginalità locale, coprono porzioni di suolo di dimensioni non grandi o frammentate, o addirittura versano in condizioni di semi-abbandono. In ogni caso, il ruolo di questi paesaggi colturali storici nella conservazione di varietà e razze locali domestiche emarginate dal sistema agroindustriale moderno è ormai ampiamente riconosciuto, come è evidente la capacità di attrarre animali, o insetti, da parte delle agricolture promiscue o degli agrosistemi olivicoli tradizionali (Agnoletti, 2010; Cevasco e Moreno, 2010). Come è noto, infatti, gli agroecomosaici costruiti dalle popolazioni locali nel passato erano assai “ben bilanciati… in modo tale che diversità biologica e qualità paesaggistica si sono mutuamente consolidate” (ISPRA, 2008).
Nello stesso senso, assai rilevanti sono anche gli spazi semi-domestici delle agricolture di montagna, come “i prati montani” dell’Appennino settentrionale (Cevasco e Moreno, 2010).
Ai “tipi” principali dei paesaggi colturali storici (per usare un’espressione cara alla storia della geografia italiana, vedi Rombai 2011), bisogna poi aggiungere infiniti altri micro-paesaggi, più confusi, meno “regionalizzabili”, ancor più diversificati. Sono innanzitutto quelli delle singole aziende, che si prefiggono di coniugare processi produttivi tradizionali e pratiche nuove, o di disegnare e gestire tipi diversi di “ecoagricoltura” (Scherr e McNeely, 2008). E sono anche quelli dei giardini e degli orti domestici, i quali, pur essendo talora molto piccoli, non solo hanno un indiscusso significato culturale e sociale, e spesso anche estetico, ma possono anch’essi esercitare un ruolo vitale come spazi di agrobiodiversità (Galluzzi, Eyzaguirre e Negri, 2010).
Proteggere la varietà del paesaggio colturale italiano, micro e macro, storico oppure legato ad iniziative recenti, significa dunque proteggere (anche) la biodiversità. Tuttavia, in alcuni casi, l’attenzione nei confronti del paesaggio colturale si manifesta attraverso un processo di patrimonializzazione, che rischia di oggettivare il “paesaggio” e di privilegiare un approccio meramente “conservativo”. Il che può essere utile, ma non è sufficiente. Infatti, come scriveva Aldo Sestini nell’ormai lontano 1947, “il paesaggio antropogeografico”, ossia il prodotto dell’azione territorializzante nei confronti della natura, è “una forma di equilibrio” fra l’opera degli agenti naturali e l’opera trasformativa degli esseri umani (Sestini, 1947). Se l’agire territoriale viene meno, se cioè le pratiche agricole vengono abbandonate, rapidamente viene meno anche il paesaggio. Questo significa che un paesaggio colturale, per essere conservato, deve essere mantenuto attivo, ossia devono essere mantenute attive le pratiche colturali che lo hanno portato ad esistere. Oltre ad essere attivo, il sistema colturale deve essere anche agito in modo socialmente sostenibile. Infatti, se ci si ferma alla dimensione estetica, ossia al “bel paesaggio”, questo rischia di essere, come ci dice Raymond Williams, una superficie (1973, p. 120), che “implica separazione e osservazione”, ma che ci impedisce di vedere le vicende, e magari le difficoltà, di chi di quel paesaggio è l’agente trasformativo. Attraverso il paesaggio dobbiamo invece imparare a vedere l’agire territoriale, a vedere le storie di chi lo ha prodotto e di chi lo produce tuttora, e a “mettere quelle storie in relazione con la terra e con la società” (Williams, 1973).
All’interno del paesaggio, soprattutto del paesaggio colturale, segnato dalla trasformazione agricola che talora rappresenta il frutto di un lavoro di secoli, dobbiamo imparare a vedere anche la fatica di chi lo trasforma, o nel passato lo ha trasformato, costruendo muretti a secco, prosciugando acquitrini, coltivando vigneti. Solamente attraverso l’attenzione nei confronti di chi produce quel paesaggio, e dunque del suo agire territoriale, è ipotizzabile la sua conservazione. Per mantenere vivo il “paesaggio colturale”, e la ricchezza di biodiversità, dunque, fermarsi ad ammirare “il bel Paese” non basta, e neppure guardare il “bel paesaggio”. Bisogna imparare a leggere, e a conoscere, il “paesaggio” nella sua molteplice valenza, ed arrivare a capire come funziona un “buon territorio”, ossia ad un agire territoriale che attivamente conduca in questa direzione. In questo senso, è opportuno mettere in evidenza la necessità di un “sostegno pubblico” nei confronti delle agricolture, tradizionali e non, che si impegnano sul versante della agrobiodiversità, senza tuttavia trascurare l’importanza della dimensione sociale della sostenibilità. In questo senso, è bello pensare che “il riconoscimento del buon uso del territorio dovrebbe essere di aiuto nel processo decisionale politico per favorire gli investimenti pubblici per l’accrescimento delle capacità locali verso lo sviluppo sostenibile” (ISPRA, 2008).
Agnoletti M., a cura di, Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2010
Amadei M., Bagnaia R., Laureti L., Lugeri F.R., Lugeri N, Feoli E., Dragan M., Fernetti M., Oriolo G.,
Il Progetto Carta della Natura alla scala 1:250.000. Metodologia di realizzazione, Roma, APAT, Manuali e linee guida 17, 2003
Capogrossi R., Laureti L., Bagnaia R., Canali E., Augello R.,
Carta del Valore Naturalistico-Culturale d’Italia. Un applicativo di Carta della Natura, Roma, ISPRA, Serie Rapporti, 269, 2017
Cevasco R., Moreno D., Paesaggi rurali alle radici storiche della biodiversità, in Agnoletti M., a cura di, Paesaggi rurali storici.
Per un catalogo nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 121-132
Galluzzi G., Eyzaguirre P., Negri V., Home gardens: neglected hotspots of agro-biodiversity and cultural diversity,
Biodiversity Conservation, 19, 13, 2010, pp.3635-3654
ISPRA, Indicatori di Biodiversità per la sostenibilità in Agricoltura. Linee guida, strumenti e metodi per la valutazione della qualità degli agroecosistemi, Roma, 2008
Rombai L., Dalla Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni (1961) ai Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale (2010).
Il ruolo della geografia per la conoscenza e la conservazione-valorizzazione del patrimonio paesaggistico, Semestrale di studi e ricerche di geografia, 2011, pp. 95-115
Sestini A., Il paesaggio antropogeografico come forma di equilibrio, Bollettino della Società Geografica Italiana, 1947, pp. 1-8
Scherr S.J, McNeely J.A., Biodiversity conservation and agricultural sustainability: towards a new paradigm of ‘ecoagriculture’ landscapes,
Philosophical Transactions of the Royal Society B, 363, 1491, 2008, pp. 477-494
Stoppani A., Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica dell’Italia, Milano, ed. Giacomo Agnelli, 1881, 3° edizione
Williams R., The Country and the City, Oxford University Press, 1973