05.10.2018
Stefano Masini, Responsabile Area Ambiente e Territorio Coldiretti, Professore associato di Diritto agrario presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie della Formazione dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata
È facile, nell’introdurre il tema della biodiversità, intrecciare la riflessione con il dato dell’impatto sugli ecosistemi e le specie provocato dalle varie forme di aggressione e minacce implicite all’incredibile velocità dello sviluppo economico per fare i conti con le liste rosse e la promozione di campagne di salvaguardia di habitat e comunità animali e vegetali preziose e, a volte, uniche. Insomma, la cultura scientifica da un lato e l’impegno ambientalista dall’altro ci portano a promuovere interventi di conservazione senza invertire le traiettorie del cambiamento, assorbire le vulnerabilità, attivare migliori strategie adattative, facendo leva proprio su una recuperata consapevolezza del nostro modo di stare al mondo accanto alle altre specie viventi, recuperando, cioè, una diversa etica della terra.
A questa convinzione ci guidano oggi autorevoli istruzioni di lettura: dalla Caritas in veritate in cui Benedetto XVI ammonisce che “il degrado della natura è strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana”(1) alla più recente e rivoluzionaria enciclica di Francesco che mostra come l’ecologia pretenda un’apertura “verso categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e ci collegano con l’essenza dell’umano”(2).
Si introduce così il tema della ecologia culturale, parte dell’identità di un luogo e della comunità insediata che ne declina anche l’interesse partecipativo a rinunciare o forse più agevolmente a modificare le tendenze uniformanti e standardizzanti dell’economia e del mercato.
Infatti, Francesco di fronte alle grandi trasformazioni tecnologiche e produttive che provocano la perdita di biodiversità, aggiunge alla gravità delle conseguenze che si percepiscono sul piano della estinzione delle specie un turbamento ancora più profondo e ingigantito dalla degradazione sociale e dalla perdita della dignità: inconsapevoli “che la terra in cui viviamo diventi meno ricca e bella, sempre più limitata e grigia… sembra che ci illudiamo di poter sostituire una bellezza irripetibile e non recuperabile con un’altra cercata da noi”(3).
Così, quando facciamo riferimento alle ampie monocolture presenti in modelli di produzione alternativi a quello che abbiamo realizzato nel nostro Paese vantando pluralità di ordinamenti culturali e versatilità delle competenze degli agricoltori, non basta aprire gli occhi sui problemi di semplificazione ecologica quanto rivendicare l’ansia di sfuggire ad un livello irrimediabile di perdita di memoria collettiva e di promessa di testimoniare il racconto del mondo alle generazioni future. Conoscere il valore della biodiversità non richiede, perciò, soltanto resistenza alle trasformazioni, ma consapevolezza di sostituire la cultura individuale estrattiva in cultura comunitaria in grado di legare i vantaggi della crescita economica alla rete della vita da cui dipende la soddisfazione dei nostri bisogni materiali e immateriali.
Il risultato di un’agricoltura esclusivamente proiettata ad aumentare i rendimenti di scala e ad applicare standard industriali e innovazioni genetiche è quello di consegnare ad un piccolo gruppo di multinazionali la possibilità di dedicarsi ad un’operazione tanto cruciale quanto la generazione di cibo in modo ecosostenibile, da parte di agricoltori esperti e padroni di saperi antichi e sofisticati. Purtroppo, guardando altre esperienze è vero che “molti agricoltori sanno soltanto trasformare il petrolio in cibo industriale, ricorrendo a sostanze chimiche, OGM e macchinari pesanti; pochissimi conoscono invece le piante locali, le erbe medicinali, il processo di ibridazione dei semi o l’uso di sistemi naturali specifici per limitare localmente l’impatto dei parassiti”(4).
Non vi è dubbio allora che il nostro sia un progetto diverso in cui i modelli produttivi e la localizzazione geografica delle filiere rivestono un ruolo centrale nella selezione di componenti materiali e di elementi intangibili in grado di esprimere l’ambiente, i saperi, i mestieri che definiscono l’offerta e la disponibilità dei prodotti sul mercato, assegnando importanza alla persona del consumatore e alle finalità non solo economiche delle sue preferenze.
Se è vero che siamo diventati vittime di un modo di pensare la produzione e il consumo inevitabilmente orientato a ridurre diversità e specificità locale è, però, riavviata anche la sfida a riscoprire la ricchezza culturale e naturale ed a riconsiderare il patrimonio delle abilità. E il cibo è il più efficace strumento di questo progetto perché “è da sempre oggetto portatore di valori, simbolo per le comunità in cui sacro e profano si ricongiungono, descrivendo il calendario dell’anno e della vita”(5).
Attraverso il cibo è possibile, dunque, ridisegnare tratti culturali specifici in un contesto di forte dipendenza dalle forme di reperimento e velocizzazione delle risorse stagionali e locali. La tradizione alimentare non è altro che la valorizzazione della mescolanza di prodotti consumati ritualmente, sin da epoche lontane, in dati territori, facendo leva sulla combinazione sempre diversa per geografia, clima e storia di innumerevoli ingredienti originali.
Necessità familiari e, soprattutto, riti e feste che hanno a lungo caratterizzato il vissuto gastronomico e sociale in tutte le regioni e che oggi conoscono un rinnovato ed entusiastico consenso per la riscoperta antropologica della identità culturale sono anche l’occasione per sovvertire ordinamenti produttivi, recuperare varietà tradizionali e antiche ricette.
Per questo ho qualche diffidenza nell’indicare una prospettiva soltanto ecologica per la scoperta (e la protezione) della biodiversità in quanto risultato, piuttosto, della collaborazione delle attività dell’uomo con l’ambiente circostante: un vero e proprio sociosistema diverso dalle collezioni museali di specie; un laboratorio in grado di superare l’invadenza tecnologica e recuperare alcune dimensioni smarrite della nostra vita. Come reagisce Carlo, protagonista infelice dei racconti pasoliniani raccolti in Petrolio(6), finalmente quieto nell’osservare la notte con un sorriso provocato dal ripetuto e indecifrabile messaggio canoro dei grilli o, nella riflessione più generica intorno alla artificialità della vita umana, suggerisce il timore del filosofo non tanto di “pensare che nel futuro ci nutriremo di cibi industriali arricchiti di aromi e coloranti chimici che ci faranno dimenticare gli alimenti di origine animale”, ma che “scompariranno anche certe forme umane di vita contadina tradizionale: dovremo rassegnarci a dimenticare la melodia rurale del gallo che canta o della mucca che muggisce”(7).
Una campagna che rimanga plurale e polifonica nella sua ricchezza di espressioni naturali e culturali richiede naturalmente di consolidare esperienze produttive a forte impronta identitaria, contrastando l’erosione della capacità operativa che la dimensione di prossimità elegge controcorrente per sfidare il mercato standardizzato.
Le botteghe di vendita diretta e i mercatali diventano, in questo contesto, strumenti essenziali di differenziazione della strategia economica delle imprese agricole incoraggiate a recuperare prodotti in via d’estinzione che appartengono alla storia e alle tradizioni territoriali nella consapevolezza di intrecciare, di fronte allo scaffale, un consumatore fiducioso, informato ed educato a muoversi con emozioni più profonde e lontane dalla dimensione del marketing e dalla soddisfazione delle esigenze della scelta di consumo. Questo processo di revisione dell’idea di mercato funziona, cioè, se si stringe un accordo libero e consensuale tra agricoltori e consumatori interessati a ribellarsi e ad inventare nuove regole della consapevolezza di sé e delle proprie scelte di equilibrio a livello di ambiente e società.
Può essere, pertanto, un lievito efficace a sostenere diversi e più adeguati comportamenti di consumo quello di “(ri)destare la sensibilità delle persone, specialmente delle popolazioni urbane nei confronti della produzione di cibo e delle sue esigenze. Coltivare alcuni pomodori sul balcone di casa consentirebbe di recuperare, almeno in parte, la nozione dei ritmi della natura e della necessità di cura continua, cose che tendono ad essere dimenticate, quando l’unico contatto con le fonti di approvvigionamento è il supermercato”8.
Anzi, l’idea di rivelare la natura dei piatti che serviamo a tavola, tornando indietro per intrecciare ecologia, economia, società e cultura ci porta a valorizzare il principio della biodiversità: quelle sementi che custodiscono il segreto della riproduzione e della variabilità delle specie, che possono essere scambiate e generare nuova abbondanza oppure selezionate con modificazioni genetiche e sfruttate con meccanismi opportuni di sterilità.
Non c’è dubbio che sta a ciascuno di noi decidere. La globalizzazione dei commerci e i suoi figliastri – la delocalizzazione delle filiere e la massificazione delle produzioni – non sono inevitabili e le problematiche ad esse connesse – e più volte accennate – dalla riduzione delle conoscenze e delle capacità delle comunità locali, alla indifferenza per le espressioni culturali e alla ricchezza dei giacimenti naturali, non ci spogliano di memoria né ci privano di sogni.
L’impegno da mettere in campo è, dunque, quello di declinare una logica plurale e aperta alla interdisciplinarietà dei saperi in modo da ridurre i rischi del riduzionismo di qualsiasi tipo perché, prima ancora della molteplicità delle espressioni di carattere ecologico, occorre comprendere e misurare le possibilità di ricucire i contatti con le persone: per adattarsi ai cambiamenti che attraversano il nostro tempo e pretendono una responsabilità intergenerazionale.
La nostra attrezzatura portatile a presidio della biodiversità potrebbe essere quella di parlare con gli anziani per condividere, poi, la realizzazione di attività di ricerca e di promozione di conoscenza con particolare riferimento alla dimensione gastronomica e folkloristica con i giovani; allestire iniziative in cui la memoria sia l’occasione per riprodurre eventi collettivi, ritrovando nei prodotti il legame con l’uso della terra secondo le tradizioni e riattivare competenze degli operatori delle filiere e l’interesse per una offerta alternativa di mercato. Fondamentale tassello possono essere, soprattutto, i mercati degli agricoltori dove poter finalmente sostenere la rete della vita e contribuire alla riprogettazione di una comunità dei saperi.
1 Lett. enc. 29 giugno 2009, 687.
2 Lett. enc., Laudato si’, 11.
3 Lett. enc., Laudato si’, 34.
4 F. Capra e U. Mattei, Ecologia del diritto, scienza, politica, beni comuni, Arezzo, 2017, 213.
5 Così C. Petrini., Le minoranze: una risorsa gastronomica libera, in Popoli senza frontiere. Cibi e riti delle minoranze linguistiche storiche d’Italia, vol. I, a cura di P. Grimaldi e M. Picciau, Bra, 2016, 54.
6 P.P. Pasolini, Petrolio, Milano, 2015, 91.
7 F. Savater, Tauroetica, Roma-Bari, 2012, 51-52.
8 Così Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Terra e cibo prefazione di P.K.A. Turkson e M. Toso, Roma, 2015, 139.