05.10.2018
Francesco Petretti, Professore di Biologia della Conservazione all’Università di Perugia, documentarista e comunicatore ambientale
Dal punto di vista agricolo l’Italia vanta una straordinaria varietà di situazioni, derivate dalla varia morfologia del territorio, dalla multiforme situazione climatica, dalla complessa storia delle civiltà che si sono succedute nel suo territorio e che hanno portato gli uomini a contendere la terra alla vita selvatica dal piano alla montagna, dalle Alpi alle isole siciliane. Si può dire che non esista angolo del territorio che non sia stato interessato in qualche misura dall’attività agricola e zootecnica. I prati alpestri sono pascolati fino al limite delle nevi perenni, altrettanto avviene nell’Appennino, mentre i terrazzamenti in pietra si arrampicano fino all’orlo dei vulcani e nelle più pietrose isole tirreniche.
L’agricoltore è artefice di buona parte dei paesaggi italiani, che si presentano come una fusione, spesso armoniosa, di aree coltivate e di elementi naturali come i boschi, i laghi, i fiumi, le rocce. Non è quindi fuori luogo sostenere che oggi più del cinquanta per cento della biodiversità animale e vegetale in Italia sia contenuto o dipenda in qualche misura dalle zone agricole, soprattutto da quelle estensive. In Italia come in Europa, così, la conservazione del paesaggio agrario tradizionale è diventato uno dei temi centrali della nuova politica ambientale europea, fatta propria dalle associazioni di categoria e dagli organismi dell’Unione Europea che hanno varato una serie di significativi provvedimenti (uno dei primi fu il set aside) per vincolare la riduzione delle produzioni agricole a un miglioramento qualitativo degli ecosistemi coltivati. L’obiettivo è di conservare, insieme ad alcuni sistemi di agricoltura tradizionale che permettono di avere prodotti agroalimentari di eccellenza, un paesaggio unico e, con esso, un gran numero di animali e di piante.
Fra gli ambienti agricoli a me cari, nei quali ho compiuto studi a carattere ornitologico, vi sono soprattutto quelli destinati al pascolo brado, perché alcune forme tradizionali di allevamento del bestiame hanno una grande importanza per la conservazione dei paesaggi e della vita selvatica. Gran parte dell’Europa, dal Mediterraneo all’estremo nord, è stata modellata dai pastori e dai loro armenti: le capre nella macchia mediterranea più arida e inospitale, le renne nelle tundre della Lapponia, le vacche nei floridi pascoli alpini, i bufali negli acquitrini, le pecore transumanti dal piano alla montagna e viceversa. Ovunque questi animali hanno trasformato la vegetazione, hanno condizionato le scelte delle popolazioni umane, hanno imposto un particolare assetto al paesaggio che comunque ha favorito alcune specie di selvatici.
Con il bestiame hanno conosciuto prosperità molti mammiferi, rettili, invertebrati e soprattutto uccelli degli ambienti steppici ed ecotonali, specie che oggi rischiano di scomparire perché il paesaggio pastorale va scomparendo di pari passo con il declino dell’allevamento estensivo del bestiame brado a favore dei sistemi più moderni e intensivi di allevamento in stalla. La zootecnia estensiva è all’origine di ambienti di un certo valore per la fauna selvatica come i prati-pascoli della maremma laziale. Spendere qualche parola in difesa di queste antiche e sapienti attività non è superfluo. Valga per tutte il caso dell’alpeggio che si può includere tra le forme di sfruttamento delle risorse naturali maggiormente rispettose del territorio e della vita selvatica nella regione alpina.
È un sistema di allevamento che comporta la permanenza nei prati-pascoli di montagna di mandrie di bestiame (prevalentemente bovini da latte) nel corso della buona stagione. Il sistema ricorda la transumanza ovina dell’Italia centro-meridionale per la sua stagionalità e per il fatto di sfruttare produzioni foraggere naturali differenziate, ma se ne distingue per l’accentuata verticalità degli spostamenti. In tarda primavera, infatti, le vacche abbandonano le stalle di fondovalle e si spostano poco a poco verso i prati alpestri coprendo dislivelli di duemila-duemila e cinquecento metri. Solo sul finire dell’estate cominciano a scendere a valle dove trascorreranno tutta la cattiva stagione alimentate con il fieno tagliato durante l’estate in ubertosi prati naturali. La pratica dell’alpeggio, diffusa lungo tutta la catena alpina dalla Liguria al Friuli, anche nelle nazioni confinanti con l’Italia, ha diversi aspetti di interesse per l’economia e l’ecologia della regione, che possono essere così sintetizzati:
Il ciclo annuale dell’allevamento bovino è distinto in due fasi: da novembre ad aprile le vacche sono tenute nelle stalle del fondovalle e sono nutrite con il fieno raccolto durante l’estate. Da maggio ad ottobre pascolano liberamente in montagna, spostandosi sempre più in alto con l’avanzare della buona stagione e scendendo gradualmente in basso con le prime bufere di neve in autunno. Il latte viene raccolto in una stagione piuttosto lunga e quello ottenuto durante l’alpeggio ha delle proprietà particolari (contenuto in grassi e aroma) che lo rendono il migliore per la produzione della fontina e degli altri formaggi.
Di solito le mandrie hanno piccole dimensioni e sono gestite su base familiare. Del resto è evidente che solo mandrie di modesta consistenza sono in grado di sfruttare le esigue risorse alimentari disponibili attraverso il taglio del fieno, operazione prevalentemente manuale, nelle radure situate nelle zone a bassa quota in prossimità dei villaggi. Mandrie di grandi dimensioni sono infatti costrette a una dieta integrata con mangimi e insilati durante la stagione invernale. In tutta la catena alpina sono state selezionate numerose razze bovine, tutte da latte, per sfruttare al meglio la produzione spontanea di foraggio. Sono animali di piccola e media taglia, con treno anteriore robusto, baricentro basso, zoccoli ampi e ossatura tale da consentire un agile movimento su pendii anche molto scoscesi.
In questo quadro, sicuramente in evoluzione e ricco di non poche contraddizioni, mi interessano in particolare gli agricoltori che vivono e operano nei parchi e nelle altre aree protette. Per molti di loro nascere, vivere e lavorare in un parco è una fortuna, perché si ritrovano a godere di opportunità economiche altrimenti impensabili, grazie al flusso turistico attivato dall’esistenza di un’area protetta famosa. Per altri è una disgrazia: ogni intervento edilizio, anche la costruzione di una mangiatoia in legno per le vacche o la ristrutturazione di un fontanile che perde, è assoggettato a rigidi nulla osta.
Qualcuno vorrebbe che nei parchi si coltivasse il frumento come ai tempi di Checco e Nina, guidando i “buoi dalla pacata faccia”, e che fosse permesso ai cinghiali di fare pranzo e colazione con i frutti della terra ottenuti a caro prezzo. E molti agricoltori, dalla Val d’Aosta ad Agrigento, per questo si lamentano. Eppure non dovrebbe essere difficile chiudere un cerchio che è perfetto, poiché contiene i seguenti elementi.
Primo: l’agricoltura in Italia è il vero presidio del territorio. Conserva boschi ed acque, terra e animali, previene il diffondersi degli incendi. Meglio un agricoltore che lavori attivamente il suo terreno di un ente parco dotato di risorse economiche esigue e spesso intermittenti.
Secondo: un contadino intelligente e moderno è ben disposto a rivedere un certo modo di produrre reddito agricolo per venire incontro alle opportunità offerte da un mercato di qualità come quello dei prodotti Doc, Dop, Igp e biologici. Un agricoltore che vive in un parco è quindi interessato a produrre di meno, ma a incrementare la qualità delle sue produzioni a vantaggio degli equilibri ambientali: in sostanza meno chimica e meno pratiche intensive.
Il grande nemico della natura, dell’ambiente, e in definitiva della nostra vita, non è oggi il contadino che tira un colpo a un cinghiale troppo ingordo o fa un recinto per mettere le pecore al riparo dalle incursioni dei lupi, ma è la cementificazione selvaggia e assurda che al ritmo di cinquantamila ettari l’anno sta trasformando in uno sterile agglomerato di case, villette, baracche, capannoni industriali, il paesaggio italiano, la sola risorsa che potrebbe nel futuro garantire ricchezza alla nostra nazione e competitività nel solo mercato che possiamo affrontare a testa alta: quello del turismo e dei prodotti di qualità. Per queste considerazioni, l’agricoltura deve tornare al centro della vita di questa nazione: della sua economia, della sua cultura, della sua civiltà. Deve tornarci attraverso politiche intelligenti e mirate che restituiscano a chi vive la dignità e l’orgoglio di essere il vero artefice di uno sviluppo sostenibile.