22.01.2016

[:it]I VINI DEL PIEMONTE[:]

[:it]I VINI DEL PIEMONTE Cinque delle dodici DOCG del Piemonte sono a base Nebbiolo, nonostante quest’uva costituisca solo il 3% del vigneto Piemonte, dove la parte del leone (30%) la fa – mi raccomando l’articolo femminile – la Barbera, tradizionalmente piantata a fondovalle, mentre il Nebbiolo è tipico della mezza collina; tipicamente in cima, sul […]

[:it]I VINI DEL PIEMONTE
Cinque delle dodici DOCG del Piemonte sono a base Nebbiolo, nonostante quest’uva costituisca solo il 3% del vigneto Piemonte, dove la parte del leone (30%) la fa – mi raccomando l’articolo femminile – la Barbera, tradizionalmente piantata a fondovalle, mentre il Nebbiolo è tipico della mezza collina; tipicamente in cima, sul cosiddetto bricco, si trovava il Dolcetto oppure ancora Nebbiolo.
La Barbera si fregia di due DOCG (d’Asti e del Monferrato, ma ricordiamo anche quella DOC di Alba): è un vitigno caratterizzato da grande acidità e ricco di polifenoli, di buona struttura ma soprattutto di grande beva. Vino quotidiano per eccellenza, negli anni è stata nobilitata da produttori virtuosi, che hanno dimostrato come possa dare ottimi vini se ben coltivata: è un abbinamento perfetto con pietanze quali i bolliti o la bagna cauda. Ultimamente, anche grazie alle DOCG Dogliani e Dolcetto di Ovada, si sta assistendo a una riscoperta del Dolcetto, troppo spesso liquidato come vino semplice e di pronta beva quando storicamente era considerato da medio (10-15 anni) invecchiamento e dava origine a vini di grande struttura e personalità.
Le Langhe sono il regno del Nebbiolo: è qui che si producono Barolo e Barbaresco, ma anche il Roero DOCG, che dà vita a vini più immediati e beverini, mentre in provincia di Asti ricordiamo la Freisa, dal caratteristico profumo di rosa, il Grignolino, tannico e scarico di colore, e il Ruché di Castagnole Monferrato, gradevole e di media struttura, fruttato e floreale.
Ma il vero gioiello, Langhe a parte, è il Nord Piemonte, troppo a lungo dimenticato e solo negli ultimi anni riconosciuto come territorio straordinario che ha dato vini di enorme personalità e longevità. La fascia pedemontana delle Colline Novaresi e Vercellesi, infatti, geologicamente si distacca dal resto del Piemonte, con i suoi terreni acidi, ferrosi e poveri di calcare, e a questo si aggiungano latitudine, altitudine ed escursioni termiche: l’uva principe è sempre il Nebbiolo, qui denominato Spanna. Le DOCG sono Gattinara (probabilmente la zona con più storia e gloria) e Ghemme, ma non possiamo dimenticare le DOC Boca, Lessona, Bramaterra, Fara e Carema: queste le stelle di quello che, insieme all’Etna, è il vero “nuovo” territorio dell’enologia nazionale.
E i bianchi? Il più coltivato è il Moscato Bianco, che nell’astigiano dà vita all’Asti DOCG (in un’enclave della quale si ottiene il Brachetto DOCG), nelle versioni Asti Spumante e Moscato d’Asti, ma non si dimentichi anche l’interessante DOC Loazzolo. L’altra DOCG a bacca bianca è il Gavi, allevato nell’Alto Monferrato, che si ottiene dal vitigno Cortese e dà vita a vini dai profumi gradevoli, perfetti con la cucina di mare. Vi sono poi l’Arneis, che rientra nel Roero (bianco) DOCG, il Timorasso, allevato nei Colli Tortonesi, di ottima struttura e a volte simile al Riesling, l’Erbaluce di Caluso, tipico del Canavese, e una piccola presenza di uve internazionali quali Chardonnay, Riesling e Sauvignon.

BAROLO E BARBARESCO
E’ forse il Nebbiolo la più grande uva al mondo? Questioni di lana caprina, quel che ci interessa è celebrare degnamente due colonne portanti dell’enologia italiana, paradigmi del grande vino rosso da invecchiamento.
Non si può parlare del più nobile dei vini italiani senza spendere due parole sull’uva che, rigorosamente in purezza (vade retro chi vorrebbe cambiare il disciplinare!), lo costituisce: il Nebbiolo. Un vitigno difficile, che ha fatto fallire miseramente ogni tentativo di allevarlo al di fuori della sua zona d’origine (Piemonte, Valle d’Aosta e Valtellina) e che per questo incarna l’idea più vera di autoctono; vitigno trasparente, mai concentrato e che vira rapidamente di colore, essendo poco ricco di antociani, ma la cui austera eleganza, complessità e capacità d’invecchiamento conosce pochi eguali. E’ un’uva che richiede moltissima luce ma regge bene l’acqua per via della buccia resistente, ricca di tannini. Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, parlava di “Spioania” (“pruno spinoso”), e descriveva come i suoi acini maturi fossero avvolti da pruina, una sostanza protettiva, di consistenza cerosa, da cui deriva il nome attuale dell’uva, che compare per la prima volta in documenti ufficiali attorno al 1350; va però detto che all’epoca vi si realizzavano vini dolci.
Dobbiamo quindi balzare all’anno 1802, quando una delle prime etichette d’Italia è di un “Vino vecchio Nebbiolo lasciato diventare amaro” imbottigliato dalla cantina Cremosina da uve “cedute dalla famiglia Sola in cambio dei nostri Moscato e Brachetto”: questo l’antefatto, ma la vera rivoluzione va attribuita a Camillo Benso, conte di Cavour. Egli infatti, volendo produrre vino di qualità, chiamò dalla Francia l’enologo Louis Oudart, che intuì che il Nebbiolo poteva dare origine a grandi vini secchi: era nato il Barolo.
Il primo disciplinare di produzione (quello odierno richiede almeno 38 mesi di affinamento, 62 per la Riserva) risale al 1892, e da lì la tradizione ha voluto che il Barolo, invecchiato in botti di castagno o di rovere di Slavonia, fosse vino di grande austerità, da bere dopo vent’anni e più dalla vendemmia, quando finalmente avrebbe dimostrato tutta la sua stoffa, tale che molti lo considerano il più grande vino al mondo. Nessuno si sognò di cambiare la tradizione fino agli anni ’80, quando i cosiddetti “Barolo Boys” introdussero lo stile moderno che prevedeva l’uso delle barrique per accelerare la maturazione in cantina, macerazioni più brevi (eventualmente con l’utilizzo di rotomaceratori) e rese più elevate in vigna: il loro obiettivo era quello di ottenere vini più pronti per il mercato, ma l’accusa spesso rivolta loro è di avere snaturato l’essenza del Barolo (anche ricorrendo a prove scientifiche: alcuni profumi vengono ceduti dalle uve solo a seguito di lunghe macerazioni), ricavandone vini costruiti e non rispettosi del territorio, oltretutto – e qui sta il paradosso – imbevibili prima di un paio di decenni, quando il territorio avrà ripreso il sopravvento sulla pura, fredda tecnica umana. Il mercato, soprattutto americano, per decenni ha dato ragione ai modernisti, ma oggi sembra esserci un ritorno alla tradizione, per la gioia di chi ha sempre ritenuto il Barolo tradizionale l’unica sua vera espressione. In ogni caso, un buon Barolo, meglio se con qualche anno sulle spalle, sarà un grande abbinamento con la selvaggina (lepre in civet in primis), i piatti a base di tartufo, i brasati e i formaggi stagionati come il Castelmagno.
Simili sono gli abbinamenti ideali per il Barbaresco, anch’esso ottenuto da Nebbiolo in purezza e affinato almeno 26 mesi, 50 per la Riserva. Un tempo considerato il fratello minore del Barolo, negli anni è stato nobilitato da grandi produttori – impossibile non citare Angelo Gaja – e oggi è ritenuto da tutti un vino di classe assoluta. Di grande eleganza, raggiunge l’equilibrio generalmente prima del Barolo ma non è meno propenso all’invecchiamento. Il disciplinare del Barbaresco è il primo a introdurre dal punto di vista legislativo il concetto di cru, o di “menzione geografica aggiuntiva”: ce ne sono 65 e corrispondono ad altrettante microzone di particolare vocazione individuate dal Consorzio. In Francia, specialmente a Bordeaux e in Borgogna, il concetto di cru è alla base dell’enologia da oltre un secolo e mezzo: si potrebbe dire “meglio tardi che mai”, ma (specie dal punto di vista commerciale: i vini grandi erano e grandi rimangono) quanto tempo abbiamo perso?[:]

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